2012 / 2013


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IW Genova PHF - Visita alla mostra ''Mirò. Poesia e luce'' a Palazzo Ducale

Martina Comi ci ha introdotto nel mondo di Mirò con grande preparazione e sensibilità, La sala forse più significativa è quella che ripropone lo studio di Mirò dove come egli dice ”acquistò la capacità di imprigionare la luce nel colore”. Spazi vetrati sul soffitto, sulle pareti ed in fondo le rocce di Palma di Maiorca. Nel suo studio raccoglie gli oggetti che trova “è l’oggetto che mi chiama”, prende appunti sui muri, s’ispira, crea, medita, seduto sulla sua sedia a dondolo. È il suo ultimo studio, quello del quale con amore diceva: ”Il mio studio è come un orto, io ne sono il giardiniere”. Lo studio è riprodotto fedelmente: ci sono gli oggetti, i fischietti, i quadri. C’è tutto il suo mondo, quello che lui sognava: ”Di solito dormo come un ghiro, ma quando sono sveglio sogno in continuazione”. Un mondo diverso da quello iniziale, fatto di quella pittura d’ambiente, verso la quale Mirò ha avuto nel corso degli anni un rifiuto totale: ”Le convenzioni pittoriche sono un veleno, me ne voglio liberare”. Nel periodo della maturità vediamo infatti un artista molto più “violento e aggresstivo”, nel senso che si sentiva molto più libero di creare quello che veramente voleva, indipendentemente dal fatto ”che piacesse o meno”. Rappresenta infatti gli oggetti non come sono, ma come lui li sente e come vorrebbe farceli percepire. Nella sua pittura c’è colore, c’è luce e nulla è affidato al caso anche se sembra immediata e spontanea, convivono stili e modi di esecuzioni diversi. Al Mirò dei colori, prevalentemente l’azzurro, il verde, il giallo e il rosso, si affianca quello più sobrio, che fa del nero il grande protagonista, grazie all’influenza della pittura astratta americana, ma anche della pittura giapponese. Quest’ultima lo ha indotto a quel cambiamento che spesso raffigura nei suoi quadri con due punti neri (punti neri che nell’ideogramma giapponese significano proprio cambiamento). Le opere che vediamo nel museo caratterizzano una fase non tanto di “maturità artistica”, quanto di “purificazione dell’opera“. «Sono una pianta che cresce»: così definiva se stesso, ed era infatti solito realizzare ogni opera con tempi molto lunghi, perché ogni giorno dedicava molto tempo a riflettere su quanto aveva fatto e su come poteva proseguire. In questi anni Mirò riprende in mano alcune sue vecchie tele e ci ridipinge sopra, in una sorta di rivisitazione da zero del suo processo creativo. Realizza dipinticollage dove la base per la pittura è fatta di ritagli di giornale, compensato, cartone o altri materiali da riciclo. Arriva infine a stendere il colore con i pugni, con i piedi (camminando sulla tela) e con i capelli, perché tutto il suo corpo partecipasse alla realizzazione dell’opera.